L’EMBRIONE E’ UNO DI NOI: I FONDAMENTI SCIENTIFICI, ANTROPOLOGICI E PSICOSOCIALI

 

di Prof. Giuseppe Noia
Docente Medicina Prenatale – Università Cattolica del Sacro Cuore – Roma
Responsabile Hospice Perinatale – Policlinico Gemelli
Presidente Fondazione Il Cuore in una Goccia Onlus

INTRODUZIONE

Mai come in questo periodo stiamo riscoprendo, nel quotidiano riflettere, in solitudine, la meravigliosa bellezza della nostra vita. Quando fu pubblicata l’Enciclica Evangelium Vitae, 25 anni fa, io, che mi diletto a scrivere canzoni e cantarle ho pensato di far parlare quelle persone che nessuno fa parlare dando voce a chi non ha voce: i bambini abortiti volontariamente. In una canzone dal titolo “Il Giardino del Re” scrivevo questo testo: “Siamo fili d’erba nel Giardino del Re, tenera riserva di un incanto che è questa nostra vita che continuerà oltre le miserie della falsità”. Ho pensato che queste parole potessero sintetizzare 3 aspetti fondamentali: a) la tenera e infinita dignità degli embrioni abortiti (i fili d’erba) considerati “riserva umana” scartata ed eliminata dal crescere nel giardino della storia dell’umanità, che è la nostra esistenza; b) il destino immortale di queste vite “falciate”; c) la falsità scientifica, giuridica, psicosociale che ne autorizza la “falciatura”. Ecco perché quando riflettiamo sulla custodia della vita e sulla sua generazione, dovremmo sostanzialmente riflettere sulla sua preziosità e grandezza (E.V. Introduzione, 2 1995) perché l’uomo è chiamato ad una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio (E.V. Introduzione, 2 1995).

LA CUSTODIA DELLA VITA

Se siamo convinti della sua preziosità con quali occhi la guardiamo, la custodiamo e la difendiamo? La custodia della vita appare nel mondo psicosociale attuale una altalena tra l’indifferenza e la solidarietà. E sappiamo rispondere alla indifferenza con la solidarietà? Quanto siamo solidali con il valore del dono della vita e della possibilità di poter generare? E quale consapevolezza abbiamo di quello che avviene nel cuore di una donna, di una coppia, di una famiglia quando perde il figlio, quando si perde il dono tanto desiderato? Tutto questo processo di valorizzazione del dono della vita oggi è profondamente messo in discussione perché viviamo nel mondo delle “I“: sembra che siamo tutti amici di Narciso, figli di Pilato e solidali con Caino. Individualismo (Narciso), Ignavia (Pilato), Indifferenza (Caino), sono i 3 giganti del nostro vivere relazionale ma un grande sociologo moderno ha scritto che: “La più grande povertà dei nostri tempi è la povertà delle relazioni”(P. Donati, 1986; 1997; 2013). Siamo quindi dinanzi ad una povertà spirituale e intellettuale e allora ci chiediamo: tutto questo ci fa vedere l’essenziale che è invisibile agli occhi? Ci fa vedere come la più grande e importante relazione della nostra esistenza abbia un percorso di pedagogia del vivere impostato alla oblatività dell’uno (il figlio) verso l’altra (la madre) e viceversa? Ci fa vedere come i processi di crescita biologica psicologica e relazionale nascono da vere e proprie uccisioni del proprio io? Se non ci sono gli occhi del cuore il più grande insegnamento relazionale (tra l’embrione e la madre) viene silenziato, praticamente non visto, realmente non esistente.

LA GIUSTIFICAZIONE SOCIALE DELL’ABORTO VOLONTARIO
Sempre più spesso il diritto alla vita si piega e si spegne sotto la pressione delle logiche di una società che tenta di sopprimere tutto ciò che non rientra nei suoi canoni (oggi più che mai discutibili): tutto ciò che non è “perfetto”, tutto ciò che può creare uno “spreco” di denaro per la società, tutto ciò che crea sofferenza. Il problema reale, del ricorso a questo criterio di “massima efficienza” sta nel soggetto verso cui è indirizzato: il bambino che deve ancora nascere, l’embrione “uno di noi”, “l’uomo embrione”.  Ne deriva una vera e propria “selezione” dell’uomo su sé stesso, senza guardare ai destini infinitamente grandi che ogni essere umano porta nella sua storia esistenziale: “Gli esseri umani, anche se sono destinati a morire, non sono nati per morire ma per incominciare”. (Hannah Arendt, 2011)
L’attuale sistema sociale, probabilmente nella consapevolezza della deprecabilità di tale approccio (che va a gravare sul nascituro affetto da patologia, ovvero, un essere totalmente indifeso), tenta di creare delle regole, delle “attenuanti”, per giustificare e rendere giuridicamente e socialmente lecito ciò che è umanamente aberrante sul piano concettuale ed umano: non si può eliminare la sofferenza eliminando il sofferente. Anche in questo periodo di grande sofferenza personale, familiare e sociale, dinanzi al blocco quasi totale delle attività e dei servizi, la macchina degli aborti volontari non viene fermata cosi come la produzione e la vendita delle armi e per garantire il “diritto” di poter scegliere sulla vita di un’altra persona viene proposto l’assurdo aborto telemedico cioè guidare la paziente ad assumere farmaci abortivi per via web. Tuttavia, la risposta a questa grande menzogna culturale e sociale viene da tante donne e da tante madri e che nell’accogliere i propri figli gridano: “Siamo nati e non moriremo mai più”. (Chiara Corbella 2013)

I TRE CARDINI DELLA SCIENZA SULL’ EMBRIONE COME PERSONA
1. L’embrione come protagonista biologico. Il primo aspetto è l’autonomia biologica dell’embrione che si costituisce sin dopo il concepimento. Per approfondire questa realtà è bene far parlare la scienza. Nel novembre del 2000 il British Medical Journal, nel suo editoriale, affermava che “l’embrione è un attivo direttore d’orchestra del suo impianto e del suo destino futuro”. Questa affermazione riassume molto bene la prima evidenza scientifica su cui si fondano i diritti dell’embrione: il suo protagonismo biologico. Lo zigote (il nome con cui si chiama l’embrione subito dopo la fusione delle due cellule germinali, spermatozoo e ovulo), pochi minuti dopo la fusione del materiale genetico, mostra una sua precisa identità genetica di 46 cromosomi, tipici di un individuo umano; inoltre l’assemblaggio del materiale genetico fra i 2 nuclei avviene in una maniera unica tale da far dire, anche sulla base di calcoli matematici, che ognuno di noi è un fatto unico e irripetibile derivante dalla unicità e individualità del concepimento (G. Noia, 2016). Un’altra capacità e abilità dell’embrione, prima ancora di impiantarsi, è quella di riuscire a sopravvivere, per 8 giorni, nella tuba materna senza possedere energia derivante dall’ossigeno poiché ognuno di noi non era anatomicamente collegato alla circolazione sanguigna materna. Tuttavia, ognuno di noi ha mostrato una capacità e una plasticità di adattamento e siamo riusciti a utilizzare, per la replicazione delle nostre cellule, fonti di energia diverse da quelle dell’ossigeno, passando da un metabolismo aerobico (ossigenativo) ad un metabolismo anaerobico (non ossigenativo). (Gardner RL, 2001) Nei minuti, nelle ore e nei giorni dopo il concepimento e durante la nostra “vita tubarica”, abbiamo (noi embrioni precoci) indirizzato il piano programma genomico che ha fatto affermare alla ricercatrice Helen Pearson (2002) che il nostro destino è tutto scritto nel giorno 1 (“Your destiny from day one”) quando eravamo zigoti unicellulari (cioè embrioni ad una sola cellula). Infatti, appena si determina il nuovo individuo umano, dopo 26 secondi vengono attivati centinaia di geni e già in quei momenti si definisce un “file” di espressione genica che stabilisce quali saranno e come verranno formati i diversi organi, la posizione del corpo nello spazio e dove e quando si formeranno gli arti e la testa. (Piotrowska K, et al. 2001) Tutto questo è un vero e proprio protagonismo biologico, la prima caratteristica appunto.
2.L’embrione relazionato con la madre. La seconda caratteristica è la relazionalità dell’embrione con la madre sia sul piano biologico, che avviene prima dell’impianto (7-8 giorni) che sul piano psicodinamico: infatti, sin dopo il concepimento inizia una relazione del figlio con la propria madre (J. Douglas et al. 2011); essa è costituita da messaggi biochimici, immunologici e ormonali che segnalano alla madre la presenza del proprio bambino e che lei dirige e organizza per impedire che il figlio, per il 50% simile al padre e quindi diverso da lei, possa essere riconosciuto ed essere rigettato, come le leggi dell’immunologia prevedono quando c’è una diversità di tessuti. (Horne AW, 2000) Invece tutti noi, pur essendo per il 50% diversi da nostra madre, non siamo stati rigettati grazie a questo cross-talk (linguaggio incrociato) che avviene fra noi, embrioni dei primi giorni nella tuba, e nostra madre che “prepara” il posto più adatto per essere ricevuti e per poter annidarci. (Mancuso et al., 2009) È talmente importante questa relazione che, se tale “colloquio” con nostra madre, non avviene in maniera ottimale, si può formare una placenta anatomicamente non ottimale, con successivi problemi di aborto spontaneo e/o di basso peso del neonato alla nascita. Il basso peso (< 2200 gr), come è stato dimostrato da molti lavori pubblicati, comporta ripercussioni nell’infanzia, nell’adolescenza e nella vita adulta. Tutte queste evidenze scientifiche supportano inconfutabilmente il concetto che i primi otto giorni non sono così insignificanti, come una cultura del “silenziamento” scientifico vorrebbe far credere, visto che da questo periodo e dalla qualità di questa relazione possono verificarsi conseguenze per tutta l’esistenza futura dell’individuo umano.
L’embrione medico della madre. Il problema tuttavia è un altro: spostare la dignità, scientificamente fondata, della persona umana dal concepimento all’impianto non è altro che una manipolazione scientifica con uno scopo ben preciso. Infatti, questo stratagemma (non suffragato da motivazioni scientifiche) avrebbe la finalità di sdoganare sul piano etico l’uso della pillola del giorno dopo, la pillola dei cinque giorni dopo, l’uso della diagnosi preimpianto, che comporta una perdita di embrioni del 93%, come i dati del Ministero della Salute ci hanno mostrato, e l’uso indiscriminato delle cellule staminali dell’embrioblasto (cellule staminali embrionali), con ovvia perdita dell’embrione stesso. La relazione con la madre poi prosegue, perché ognuno di noi, ha inviato cellule staminali alla propria madre, definite guaritrici, e che, inviate dal feto, attraversano la placenta, giungono nella circolazione sanguigna materna per circoscrivere e guarire alcune patologie della madre. (Bianchi DW1, 2000) Si realizza quindi il concetto che il feto è il “medico della madre” (Noia, 2018). La cosa ancora più sorprendente è che questa cura del figlio verso la madre, può avvenire anche sul piano psicologico (dalle evidenze degli studi analitici, il feto sembrerebbe rivestire un ruolo psicoterapeutico nei confronti della madre). (Fischetti Crova F. – Noia G. et al., 1990).
Tutto ciò attesta quanto forte sia questa relazione simbiotica, talmente forte che, quando questa viene interrotta, la donna può soffrire di gravi alterazioni dell’equilibrio psicodinamico, (Thorp JM, et al. 2005; Pedersen 2008; Broen et al. 2005) a volte anche molto grave (e si tratta di un’evidenza scientifica) e, quindi, si compromette la sua salute psicologica. (Gissler et a. 1987; Laura Bencetti 2015; Reardon DC1, et al. 2004; Fergusson DM, et al. 2006)

Di questa relazione tra l’aborto volontario e la salute psichica delle donne, nonostante le evidenze scientifiche, si parla ben poco, probabilmente perché si andrebbe ad evidenziare un’incongruenza di fondo della stessa Legge 194/78, che individua nell’aborto una pratica medica finalizzata a tutelare la salute psichica della donna e che invece la danneggia; ne verrebbe meno, quindi, uno dei presupposti fondamentali.
3.L’embrione feto curato prima della nascita. La terza caratteristica è quella del feto come paziente. Il feto come paziente: l’embrione e/o il feto può essere curato prima della nascita come un paziente adulto sia per via non invasiva (dando farmaci o sostanze alla madre che attraversano la placenta e poi arrivano al feto) sia per via invasiva. (Noia G. et al., 1998; Noia G. 2007) Quest’ultima metodologia è una modalità che utilizza l’ecografia al fine di indirizzare e far progredire dispositivi come aghi e altri strumenti nella cavità amniotica, nel cordone ombelicale o nel corpo stesso del bambino, con la finalità di curarlo per la presenza di gravi patologie. (Noia G., 2009) La forma invasiva di cura prenatale, quando gli aghi attraversano il corpo della madre e del feto, viene preceduta dall’analgesia materna e fetale per non far sentire dolore. È questo il grande campo dei trattamenti palliativi prenatali (palliazione fetale prenatale). I trattamenti palliativi prenatali non hanno solo la finalità di evitare il dolore al feto ma, soprattutto, contribuiscono a far sì che il dolore prenatale non abbia ripercussioni sullo sviluppo neurocomportamentale futuro del bambino. È questa la realtà del feto come paziente. (Noia G., 2019)
CONCLUSIONI
Da quanto detto si evince la necessità di fermarsi a riflettere su una vera cultura che custodisce e protegge la fragilità delle vite: della madre e del bambino non ancora nato, della coppia e della famiglia. Il lavoro culturale da fare è di mettere le future mamme nella condizione di poter compiere scelte ponderate e consapevoli, attraverso un lavoro di informazione scientifica corretta.  Tuttavia, bisogna anche lavorare perché ci sia pari opportunità reale per le famiglie che scelgono di proseguire la gravidanza (anche nell’ipotesi di incompatibilità con la vita extrauterina di un bambino con gravi patologie), di far nascere, accompagnare, curare e amare il proprio bambino fino alla fine, alla luce proprio di quell’imperscrutabile legame che li terrà inscindibilmente uniti anche nell’eventuale distacco. È doveroso, inoltre, pensare ad un sistema di assistenza medica (e non solo) che garantisca anche alle donne e alle famiglie che vogliono proseguire la gravidanza nonostante le gravi patologie del proprio bambino, tutto il sostegno necessario per portare a compimento un progetto genitoriale che, pur nelle avversità e nelle condizioni più estreme, si realizza pienamente attraverso l’accoglienza e l’amore verso il proprio figlio. (Noia G. et al., 2010) È questa la cultura dell’Hospice Perinatale – Centro per le Cure Palliative Prenatali S. Madre Teresa di Calcutta- Policlinico Gemelli. E’ Il primo Hospice Perinatale ufficializzato in una struttura Universitaria Italiana.
Questo è anche un messaggio culturale di equiparazione di diritti civili e di reali pari opportunità: se una donna vuole interrompere la gravidanza ha una legge che sostiene la sua scelta, ma se una donna vuole continuare la gravidanza e amare il proprio figlio anche con gravi patologie, che cosa ha sul piano giuridico e sociale? Nulla! L’Hospice Perinatale è una valida alternativa all’aborto eugenetico.
L’evidenza più grande della cultura ingannevole che cerca di fuorviare le coscienze, si ritrova nella pratica, sempre più diffusa, di rispondere a tutta una serie di condizioni che si possono verificare nel corso di una gravidanza, con l’indicazione dell’aborto volontario come unica via risolutiva, una sorta di “cura” (si usa spesso il termine “aborto terapeutico”, che di terapeutico non ha assolutamente nulla!) e questo non è vero sul piano scientifico perché molte patologie congenite fetali possono essere curate prima e dopo la nascita. Allo stesso modo, il tentativo di individuare un periodo entro il quale è “lecito” ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, oppure delle casistiche (malformazioni o malattie del feto, ad esempio) che consentono legalmente di accedere a tale pratica, è solo un modo per cercare di rendere più semplice e “tollerabile” il ricorso all’aborto.
In realtà, per quanti sforzi si possano fare in tal senso, rimane sempre un fatto: il fondamento dell’essere umano è inscindibilmente legato al mistero della vita e la natura stessa dell’essere umano viene compromessa da una cultura che cerca nella morte la risoluzione dei problemi che la vita stessa pone lungo il cammino. L’apparente debolezza dell’embrione che grida al mondo della scienza che è “uno di noi” è un monito e un programma: “è quando sono debole che sono forte”.

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